Perchè è importante avere una diagnosi personalizzata in psicoterapia?
Nonostante gli straordinari progressi degli ultimi vent’anni, la psicoterapia e la medicina moderna tenderebbero talvolta ad uscire “fuori binario” perdendo il suo principale soggetto di interesse: il cliente con il suo vissuto personale e il contesto di riferimento in cui vive. Molto spesso l’approccio contemporaneo tende infatti a concentrarsi sui sintomi, proponendo esclusivamente terapie farmacologiche per gestirli, dimenticando di indagare tutto ciò che ha contribuito a generarli. Questo modo rigido di lavorare sarebbe un grave errore iatrogeno poiché si rischierebbe di oscurare la necessità di una diagnosi precisa e personalizzata.
Il processo diagnostico diventa ancora più articolato nel campo della salute mentale: Infatti, la maggior parte dei professionisti della salute mentale viene investita da una credenza molto pericolosa: temono che il loro cliente possa rimanere intrappolato dietro un’etichetta diagnostica.
Nonostante siano passati quasi 150 anni dalla nascita della psicologia sperimentale in Germania (𝑊𝑢𝑛𝑑𝑡, 1879) e da più di 30 anni la professione di psicologo sia regolamentata in Italia (𝐿𝑒𝑔𝑔𝑒 𝑛.56/1989), comunemente molte persone, a differenza del funzionamento delle più comuni malattie di origine organica, non conoscono bene cosa sia una malattia mentale e le conseguenze sulla qualità della vita, ghettizzando, ignorando e molte volte sbeffeggiando (ahime!) una realtà esistente e purtroppo sempre più in aumento. Infatti, la psicopatologia, al pari di una carie, un’otite o di una distorsione muscolare, può colpire ognuno di noi a prescindere dall’età, dal sesso, dal lavoro che facciamo e dalla nazione in cui viviamo. La malattia mentale non ha una causa unica ma origina dall’interazione intricata e variabile di 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐛𝐢𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐢 (genetici, biochimici, ecc.), 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐩𝐬𝐢𝐜𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐢 (umore, personalità, comportamento ecc.) e 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥𝐢 come la cultura di riferimento e lo status socioeconomico (𝐺. 𝐿. 𝐸𝑛𝑔𝑒𝑙, 1977). Ogni tipo di psicopatologia, alla pari di qualsiasi altra malattia come il diabete o una pancreatite, è composta e va diagnosticata secondo degli specifici criteri emotivi, cognitivi e comportamentali.
Ricevere infatti la diagnosi (es. depressione, ansia generalizzata, disturbo di personalità, disturbo da stress post traumatico etc.) non deve essere vissuto come un’etichetta stigmatizzante perché è un cruciale punto di partenza che aiuterà la persona a capire che il proprio dolore esiste, ha un funzionamento specifico e che soprattutto può essere gestito, contenuto e risolto. Inoltre, la restituzione di una diagnosi richiede un’attenzione particolare da parte dello specialista sia in termini di modalità sia di tempistica. Infatti, potrebbe accadere che il cliente non possa accogliere l’informazione in modo positivo o costruttivo. In questi casi, è dunque di fondamentale importanza che il professionista della salute mentale a cui chiedete aiuto condivida sempre con voi nel dettaglio come il “vostro nemico comune” stia rovinando la qualità della vita ma soprattutto comunichi con un linguaggio comprensibile quali sono i 𝐦𝐞𝐭𝐨𝐝𝐢 𝐛𝐚𝐬𝐚𝐭𝐢 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐜𝐢𝐧𝐚 𝐬𝐮𝐥𝐥’𝐞𝐯𝐢𝐝𝐞𝐧𝐳𝐚 (𝐄𝐁𝐌) che con alto tasso di successo saranno maggiormente efficaci in relazione alla diagnosi effettuata. Non procedere in questo modo, potrebbe comportare azioni tecnicamente scorrette come il mancato utilizzo di strumenti preziosi come i test diagnostici o le interviste semistrutturate. Il prezzo da pagare sarebbe correre il rischio di impostare un percorso terapeutico senza aver identificato correttamente il problema, con un potenziale grave danno alla persona che richiede aiuto.
Molte volte è capitato nella mia pratica clinica che le persone che si sono rivolte a me per effettuare una consulenza specialistica mi abbiano riferito di non avere nessuna idea di come funzionasse la prima visita o l’intero percorso con uno psicoterapeuta, procrastinando così per diversi mesi o anni la loro richiesta d’aiuto e permettendo così alla propria sofferenza di proliferare indisturbata.
Una personalizzazione del trattamento di una psicopatologia gioca dunque un ruolo centrale sia in psicoterapia sia in medicina e andrebbe effettuata seguendo questi 4 punti:
- PRIMO COLLOQUIO (Valutazione della richiesta del cliente, dei sintomi che generano sofferenza dal punto di vista di frequenza, durata ed intensità a livello sociale, personali, lavorativo e scolastico e le motivazioni per cui ha richiesto di chiedere aiuto;
- VALUTAZIONE PSICODIAGNOSTICA (Somministrazione dei test scelti ad hoc che, insieme al colloquio clinico, saranno utili per misurare sia la gravità dei sintomi sia l’eventuale presenza di altre forme di psicopatologia in comorbidità;
- ANAMNESI PSICOLOGICA E MEDICA (Esplorazione della presenza di patologie organiche e/o dei fattori psicologici che hanno contribuito a generare ma soprattutto a mantenere le problematiche che causano disagio clinicamente significativo nel presente
- DIAGNOSI E PIANO TERAPEUTICO (Informare il cliente sul funzionamento della sua personalità, sul come ed il perché soffre e sui metodi scientificamente validi in medicina e in psicoterapia per la riduzione e/o la scomparsa del disagio psicofisico)
La diagnosi e la definizione del piano terapeutico vanno ben oltre la semplice identificazione di una malattia o di un disturbo ma è un modo scientificamente corretto di procedere per un’ottimale pianificazione del percorso terapeutico mirato per ogni individuo. Tutto ciò può migliorare significativamente la qualità della vita di chi richiede aiuto, accelerando il tempo necessario per la guarigione e riducendo il rischio di aggravamenti o effetti collaterali dei farmaci. Nonostante questi enormi vantaggi per lo specialista e per il paziente, la diagnosi viene ancora molto spesso messa in ombra. Come già accennato ad inizio di questo articolo, è fondamentale ricordare anche che ogni individuo è unico, con una propria storia di vita e un proprio contesto. Le esperienze passate, le condizioni ambientali, la genetica e molti altri fattori hanno infatti una forte la salute di una persona. Non bisogna dunque trascurare questi aspetti in un sistema di diagnosi generalizzato che spesso tende a concentrarsi esclusivamente sui sintomi anziché sulla persona nel suo complesso.
La medicina e la psicoterapia personalizzata devono dunque riconoscere l’unicità di ogni individuo e cercare di fornire cure su misura per le sue esigenze specifiche, utilizzando metodi evidence based. Inoltre, tutto ciò aiuta le persone a sentirsi viste e capite, rafforzando il loro coinvolgimento nel processo di cura e incoraggiando una migliore adesione al trattamento. La medicina e la psicoterapia non devono considerare l’individuo non solo come un insieme di sintomi ma un individuo a tutto tondo.
BIBLIOGRAFIA
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- Sassaroli S., Ruggiero G. M., “Il colloquio in psicoterapia cognitiva. Tecnica e pratica clinica” (2013)
La Vergogna: tra giudizio di sè, dell’altro e della società
La vergogna è un’emozione sociale che ognuno di noi sperimenta quando la nostra immagine (come appariamo nei confronti degli altri) e la nostra autoimmagine (come appariamo nei confronti di noi stessi) sono state o stanno per essere compromesse. Lo scopo principale è infatti quello di proteggere l’immagine ideale di noi stessi che si vorrebbe mostrare agli altri e, di conseguenza, tale emozione può insorgere quando si crea un conflitto tra l’immagine di sè ideale e quella reale.
E’ interessante notare come la vergogna, quando genera un’attribuzione agli altri di pensieri negativi su di sé, riesca anche a limitare le funzioni della Teoria della Mente (la capacità di saper attribuire a sé e agli altri stati mentali e agire sulla base di questi e prevedere il comportamento altrui). Ciò è infatti un grosso limite che condiziona lo sviluppo delle conoscenze sociali poiché si generano errori cognitivi sia nella comprensione delle interazioni altrui sia nella valutazione delle conseguenze dei propri comportamenti sugli altri.
A livello non verbale, tale emozione si manifesta con il rossore, l’abbassamento della testa e dello sguardo. Il rossore è un effetto vergogna involontario e sincero che non può essere prodotto intenzionalmente o simulata. Tale comportamento mostra sia la sensibilità del soggetto di fronte alla valutazione altrui sia la condivisione dei criteri in base a cui tale valutazione avviene sia il dispiacere per le proprie inadeguatezze o mancanze presunte e consiste sostanzialmente in un atto di scusa volto ad eliminare eventuali aggressioni o sanzioni sociali. Oltre che con il rossore, la vergogna si manifesta attraverso il capo e gli occhi bassi che evitano lo sguardo degli altri. Questi segni non verbali manifestati da chi si vergogna esprimono la volontà di nascondersi e di sottrarsi dal giudizio altrui. Dunque, l’abbassamento della testa e dello sguardo, costituiscono, insieme al rossore, dei segnali di acquietamento o di pacificazione del soggetto che prova vergogna il quale è come se si consegnasse al giudizio degli altri chiedendo implicitamente venia per non essere aggredito.
Alcuni autori hanno proposto che l’elevata sensibilità alla vergogna potrebbe derivare da esperienze negative in età evolutiva come umiliazioni e trascuratezza, critiche e rifiuti, atteggiamenti degradanti o di sottomissione. Ciò sembrerebbe avere un forte impatto sullo sviluppo dell’identità e sulle rappresentazioni di sé in quanto costituiscono dei fattori fortemente predisponenti alla psicopatologia.
La vergogna, nonostante sia da alcuni autori considerata una parente strettissima dell’imbarazzo, differisce da quest’ultima emozione per il livello di intensità. Infatti l’imbarazzo è un’emozione più mite e non turba i pensieri, il linguaggio, l’immagine e l’autoimmagine. Inoltre, in relazione agli aspetti non verbali, l’imbarazzato ha una mimica e una gestualità che si alterna tra l’evitamento e l’avvicinamento caratterizzata dallo sguardo furtivo che si volge ripetutamente verso l’altro e poi lo sfugge e da un sorrisetto appena accennato mentre la vergogna è più sconvolgente e catastrofica in quanto associata al desiderio di nascondersi e/o di scomparire.
BIBLIOGRAFIA
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- Izard C. E., “Human emotion” (1977)
- Kaufman G., ” The psychology of shame: theory and treatment of shame based syndromes” (1989)
- Lewis M., “Il Sè a nudo. Alle origini della vergogna” (1995)
- Salvatori C., Bianco F., Lauriola A. L., Morbidelli M., Basile B., “Il ruolo della vergogna nel malfunzionamento psicologico e nelle difficoltà interpersonali” Cognitivismo Clinico Vol. 12 n°2 (2015)
- Tomkins S.S., “Affect, imagery and consciousness” (1963)
Il Senso di Colpa: schiacciati dall’eccessiva responsabilità
INTRODUZIONE
Il senso di colpa è un’emozione che si prova quando ogni persona si attribuisce un’eccessiva responsabilità per le proprie presunte mancanze. (altro…)
Learn MoreL’Invidia: l’insoddisfazione come possibilità di miglioramento
L’invidia è un’emozione caratterizzata da un confronto di potere tra due persone rispetto ad un determinato obiettivo (cioè l’invidioso vorrebbe per sé ciò che è dell’invidiato), dalla credenza soggettiva di avere meno potere rispetto a colui che si invidia e dal malanimo (il desiderare il male dell’altro) dell’invidioso speranzoso che l’invidiato non raggiunga i propri scopi. Gli scopi non raggiunti attivati da tale emozione sono principalmente quelli relativi al potere, all’immagine (come appariamo nei confronti degli altri) e all’autoimmagine (come appariamo nei confronti di noi stessi). Questa emozione serve a riequilibrare una differenza di potere che ci mette in condizioni di inferiorità e quindi ognuno di noi la sperimenta con la finalità di migliorarsi.
Molto spesso l’invidia viene erroneamente confusa con la gelosia ma, mentre l’invidia fa riferimento alla sofferenza per la mancanza di qualcosa che altri hanno e che non ci è mai appartenuta, la gelosia è un’emozione che si sperimenta quando si teme di perdere qualcosa che è già in nostro possesso. Un’altra differenza tra le due emozioni è l’impatto che hanno sulla nostra società. Infatti, si è più tolleranti in genere verso la gelosia poiché ci si mette nei panni dell’altro che cerca di difendere ciò che è suo per evitare di soffrire. Contrariamente, l’invidia è fortemente condannata a livello sociale e gli invidiosi, temendo di essere etichettati come individui dotati di bassezza morale, affermano di non provarla non essendo dunque sinceri con loro stessi poiché ciò è anche doloroso e fastidioso da ammettere.
Inoltre, mi preme sottolineare quanto anche l’arte riesca a rappresentare egregiamente le caratteristiche più salienti di tale emozione. L‘Invidia di Giotto è un affresco conservato Cappella degli Scrovegni a Padova. L’opera raffigura una donna anziana che nella mano sinistra stringe con vigore un sacchetto di denaro che rappresenta il materialismo estremo mentre la mano destra protesa ad afferrare simboleggia la brama di potere incontrastato. Le orecchie grandi fanno riferimento all’impetuosità nel cercare il pettegolezzo per spargerlo senza ritegno e senza considerare le conseguenze dannose mentre la diabolica serpe le esce dalla bocca e le entra negli occhi accecandole lo sguardo. E’ molto interessante notare come quest’ultima caratteristica sia coerente con l’etimologia della parola “Invidia” che deriva dal latino classico “in + video” a cui possiamo attribuire il significato o di “non vedere” o di “vedere in modo malevolo”. Infine, la fiamma viva e ardente rappresenta un chiaro riferimento all’invidioso che, tentando e sperando di “ardere” e dunque di eliminare totalmente le qualità e i beni dell’altro con la vana speranza di innalzare se stesso, finisce esclusivamente con l’autodanneggiarsi, diventando egli stesso la causa della propria frustrazione.
Tuttavia esiste anche una versione “buona” dell’invidia caratterizzata dall’assenza di malanimo, da una forma di apprezzamento dell’altro e dei suoi successi ed è spesso associata ad un desiderio di imitazione. In questo caso, un’affermazione come “ti invidio”, assume dunque una connotazione positiva in quanto è da intendere come “vorrei essere al tuo posto perché ciò che hai o ciò che sei è per me di valore”. Questa forma di invidia molto più morbida è facilmente confessabile e, se dichiarata al destinatario, rappresenta dunque un sincero complimento.
BIBLIOGRAFIA
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- Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M., “Fondamenti di cognitivismo clinico” (2001)
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- Pisani G., “Il capolavoro di Giotto. La Cappella degli Scrovegni” (2015)
La sindrome di Asperger: tra potenzialità intellettive e difficoltà relazionali
La Sindrome di Asperger è una forma di disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento caratterizzata da un’intelligenza nella norma o superiore. (altro…)
Learn MoreL’omosessualità: tra false credenze, tabù e omofobia
L’omosessualità è stata da sempre oggetto di numerosi dibattiti che hanno generato ed alimentato una grande confusione sulla complessità di questo fenomeno.La comunità scientifica non ha ancora raggiunto un comune accordo sui meccanismi della formazione dell’orientamento omosessuale poiché questo dipende dall’interazione tra fattori genetici, psicologici e ambientali.
Tuttavia, la comunità scientifica definisce l’omosessualità come un’espressione dell’orientamento sessuale che presuppone un’attrazione sentimentale e sessuale nei confronti di individui dello stesso sesso biologico. Insieme all’eterossessualità (attrazione per individui del sesso biologico opposto) e alla bisessualità (attrazione per individui di entrambi i sessi biologici), l’omosessualità costituisce dunque una variante non patologica dell’orientamento sessuale. Dunque, è doveroso affermare che l’omosessualità non è una malattia e quindi non può e non deve essere curata. Questo traguardo è stato raggiunto ufficialmente nel 1973 quando l’American Psychiatric Association ha derubricato l’omosessualità dalla Terza Edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
Prima delle teorie scientifiche di tipo psicosessuologico, l’omosessualità è stata oggetto di false credenze e tabù che hanno danneggiato non solo gli omosessuali ma anche l’intera opinione pubblica. Ad esempio, la posizione religiosa ha sostenuto che il comportamento omosessuale non sia naturale poichè è frutto di influenze demoniache da eliminare per poi purificare queste persone attraverso azioni disumane come il rogo e l’espiazione. A disconfermare tale assurdità, poiché l’omosessualità è presente in circa 1500 specie appartenenti al mondo animale, sarebbe totalmente improprio definirla contro natura ed è per questo che l’analisi della posizione religiosa non necessita di ulteriori considerazioni.
Ad ulteriore sostegno di ciò, poiché molte persone sostengono erroneamente che l’omosessualità sia contro natura in quanto non porta alla prosecuzione della specie, è stato scoperto che i caratteri del cromosoma X determinano l’orientamento sessuale verso l’omosessualità nei maschi mentre nelle femmine ne aumentano la fecondità. Dunque, questo apparente paradosso darwiniano è stato brillantemente risolto.
Ulteriori tabù e false credenze contribuiscono ad alimentare l’omofobia che può essere definita come la paura irrazionale, l’intolleranza e l’odio nei confronti delle persone omosessuali. L’omofobia dipende da diversi fattori tra i quali l’educazione familiomosessualita-2are, il contesto e la società di appartenenza, le istituzioni come lo stato, l’educazione scolastica e l’orientamento religioso. La cultura omofoba contribuisce dunque alla convinzione distorta che essere omosessuale sia qualcosa di assolutamente sbagliato, innaturale e contrario alle norme del vivere comune.
Tuttavia, è importante sottolineare che una ricerca effettuata nell’Università degli Studi dell’Aquila in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, ha dimostrato che le persone omofobe presentano elementi predisponenti alla psicopatologia tra i quali alti livelli di psicoticismo, rabbia, ostilità, meccanismi di difesa immaturi e uno stile di attaccamento insicuro.
Questa recente ricerca, oltre ad essere in linea con la letteratura scientifica sull’argomento, dimostra che la presenza di fattori psicopatologici andrebbero dunque cercati non nell’omosessualità ma nell’omofobia e in tutto ciò che la alimenta e la mantiene.
BIBLIOGRAFIA
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